Antologia 1 anno - 5^ lezione
Antologia 1 anno - 5^ lezione
♦ Descrizione dell’opera
♦ Indice
Antologia - 5^ Lezione
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QUINTA LEZIONE
COMMEDIA, INFERNO: CANTO QUINTO
Siamo alla nostra quinta lezione, la seconda sull’Inferno di Dante Alighieri. Ho qui con me, come altre volte, una collaboratrice. In questo caso è Sara Giglio. E’ un’alunna del quinto pedagogico del liceo Galanti. Ha studiato queste cose due anni fa e ci aiuterà a leggere alcuni passi della Commedia. E’ anche una danzatrice, la precedente, Barbara Petti, era un’attrice di teatro e lei coltiva l’hobby della danza ed è molto brava, brava anche a scuola, ma lo dovrà dimostrare anche qui…
SARA: E’ troppo buono
Prendiamo dalla fine del primo canto dell’Inferno, dal momento in cui Dante entra e si dirige verso la sponda del fiume Acheronte. Incontrerà prima, nell’antinferno, gli ignavi, quelli che non hanno speso la loro vita per fare niente di buono, niente di importante. Però prima incontra la porta dell’Inferno, nella quale sono scolpite queste parole famose:
Per me si va nella città dolente,
per me si va nell'eterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore...
fecemi la divina potestate
la somma sapienza e il primo amore...
dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne... e io etterno duro...
lasciate ogni speranza voi ch'entrate.
Dopodiché si avviano attraverso questa porta nell’inferno e trovano, nel cosiddetto vestibolo infernale, gli ignavi, che sono inseguiti da vespe, perché nella loro vita non si sono mai mossi e per la legge del contrappasso nell’inferno sono costretti a fare quello che non hanno fatto nella loro vita. E tra questi Dante incontra un personaggio che lui definisce come “colui che fece per viltade il gran rifiuto”, il papa che aveva incominciato a svolgere la sua professione, diciamo, di pontefice, ma poi aveva rinunciato vedendo che la curia intorno a lui era corrotta e c’era poca possibilità di rinnovare la Chiesa. Era stato scelto lui perché era un eremita, un uomo ispirato alla povertà, che avrebbe dovuto dare un nuovo indirizzo alla Chiesa; o forse i suoi, diciamo, elettori invece avevano un altro proposito, quello di mettere una specie di pupazzo lì sul trono di Pietro per poter continuare loro a fare quello che avevano sempre fatto. Celestino Quinto, o perché abbia capito questo o perché abbia capito che non riusciva certamente a modificare la situazione della Chiesa del tempo, rinunciò al trono pontificio. E Dante non gliela perdona, perché dopo di lui diventerà papa proprio quel Benedetto Caetani, con il nome di Bonifacio Ottavo, che sarà la rovina della sua esistenza, come abbiamo già ricordato nelle lezioni precedenti su Dante. Questo incontro, veramente, per noi molisani ha un’importanza più piena, perché Celestino Quinto era molisano, probabilmente nemmeno del territorio di Isernia, ma del territorio di Campobasso, come ci dicono le ultime interpretazioni, originario di Sant’Angelo Limosano. Quindi noi molisani difendiamo Celestino dalle accuse di Dante, uno dei rari casi in cui diamo torto a Dante. Dovete sapere che è vissuto in una prigione di due metri per uno, poi è stato avvelenato, tra l’altro, è morto molto probabilmente di veleno.
Dopodiché incontrano Caronte, sulla sponda dell’Acheronte: “Caron dimonio dagli occhi di bragia” lo definisce Dante. E questo grande vecchio dalla barba bianca, dal pelo antico e capelli lunghi e bianchi, vorrebbe impedire il loro viaggio, ma Virgilio risolve tutto con una formula: Non ti preoccupare Caronte, “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare”. Passano oltre e vengono portati sull’altra sponda dell’Acheronte da Caronte stesso, con loro una grande ressa di anime; e sull’altra sponda si ritrovano nel primo cerchio dell’inferno, nel Limbo, dove sono i non battezzati. E tra i non battezzati Dante incontrerà grandi poeti, Omero, Orazio, Ovidio, Lucano; poi c’è lui, Dante, con Virgilio; e sarà contento di essere “sesto” fra tanti poeti. Lì troverà anche altri intellettuali delle epoche antiche, che sono costretti a stare lì perché non sono stati battezzati. Sarebbe lungo adesso discutere sul fatto che sia giusto o meno che gente senza avere delle responsabilità debba…
SARA: Debba essere collocata nell’inferno, in questo luogo di orrore, di terrore…
Anche se si sono comportati bene. Dopodiché ci muoviamo verso il secondo cerchio dell’inferno, dove incontrano un’altra grande creatura infernale, Minosse. Minosse è così descritto da Dante:
Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia,
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Cioè avvolge la sua coda e per quanti giri faccia la sua coda stabilisce quanti gradi dovrà scendere l’anima. Li esamina, questo giudice infernale, li ascolta, loro dicono quello che hanno fatto e lui stabilisce: tu sei nel secondo, tu nel terzo, tu nel quarto e così via. Anche Minosse vorrebbe impedire il loro “fatale andare” perché, dice, Dante non è morto, è un vivo che deve passare nell’inferno, e vorrebbe opporsi, ma Virgilio lo liquida con la solita formuletta già citata: non devi fare domande e basta. E Minosse si deve stare zitto.
Poi entriamo in una strana atmosfera…
Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quindi sono in una grande tempesta. Scopriremo che sono le anime dei lussuriosi, che sono costretti a vivere nella tempesta, travolti, disturbati continuamente da questo, perché nella loro vita sono stati appunto travolti dalla tempesta dei sensi, della passione. Quindi la legge del contrappasso per analogia. Si ripete, in questo caso, la stessa situazione vissuta sulla terra, mentre nel caso degli ignavi era l’opposta, la situazione…
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
Sottomettono la ragione all’istinto, al desiderio…
E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l’aura nera sì gastiga?».
Vedete questa gente trascinata dalla tempesta, che vola come in formazione, come fossero gru, come fossero uccelli che seguono una linea nell’aria. E lui risponde…
«La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.
Alluderà tra poco al fatto che si tratti di Semiramide, la regina degli Assiri e dei Babilonesi, un regno che nei testi antichi viene descritto come corrotto. E poi altre lussuriose donne come Cleopatra, come Elena. E poi gli uomini, Achille, Paride, Tristano. Ne vengono nominati molti. Infatti dice al verso 70 Dante…
Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
Cioè, sentire tutti questi nomi, che erano nomi di personaggi che lui aveva amato, aveva letto nei testi di cui si era imbevuto, era adesso come rimettere in discussione tutta la sua cultura e rendersi conto di avere letto finallora dei libri che contenevano delle azioni che nella visione divina erano peccaminose. Erano tutti amori, tra quei personaggi. Quindi è come se Dante, ripeto, mettesse in discussione se stesso e riconoscesse di avere sbagliato fino ad ora. Ma lo vedremo ancora meglio più avanti…
I’ cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri».
Ne ha notati due che stanno sempre attaccati, sempre insieme…
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
Cioè Virgilio gli suggerisce di invocarli in nome di quell’amore che li travolge, li mena, li spinge in questa tempesta e in nome di quello stesso amore loro saranno disposti a rispondere. Dante capisce bene la lezione e infatti…
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!».
Ecco, le chiama anime affannate, anime sofferenti, addolorate e già questo è un moto di affetto nei confronti di queste anime, che sarà presto ricompensato con una positiva disponibilità a parlare con lui…
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.
Ecco, vengono come colombi verso Dante e Virgilio, tanto è stato affettuoso il grido, lo slancio con il quale Dante si è rivolto a loro. E sentiamo…Tu leggerai, Sara…
(legge Sara)
«O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
(recita il professore)
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».
Dante sta riflettendo. Dobbiamo spiegare cos’è avvenuto. Gli ha parlato Francesca e gli ha detto che è nata dove scende il Po con i suoi affluenti, a Ravenna; era della famiglia da Polenta. E Francesca gli ha parlato di una storia d’amore, una storia molto complicata, grave, che si è conclusa con la morte. Dobbiamo raccontarla allora, prima di andare avanti. Dovete sapere che Francesca dei signori da Polenta, di Ravenna, aveva sposato Gianciotto Malatesta di Rimini. E’ un signore un po’ più grande di lei di età, che non l’amava, nemmeno lei lo amava certamente. Fra l’altro era un po’ claudicante questo Gianciotto Malatesta e aveva un fratello più giovane e più bello di lui. E Francesca, che si è sposata non per amore ma per decisione delle due famiglie, perché i Malatesta di Rimini volevano mettere insieme le proprietà con i da Polenta di Ravenna, si ritrova in una famiglia così, senza amare suo marito, si ritrova in casa il fratello e poi vedremo come questa storia si è dipanata verso una passione travolgente e la morte, perché i due, sorpresi dal marito, vengono uccisi.
Lo dice Dante, in queste tre terzine che cominciano con la parola “amore”, con questa anafora, con questa ripetizione, che è qualcosa che riguarda la sua formazione, la sua formazione letteraria. Intanto quel primo verso “Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende” è una riproposizione della canzone tematica dello Stilnovo di Guido Guinizzelli, che diceva “al cor gentile rempaira sempre amore”, cioè l’amore risiede nei cuori gentili. E qui dice appunto: l’amore, che si accende nei cuori gentili, prese costui per la mia bella persona che mi è stata tolta. “E ancora mi offende il modo”. Significa che ancora la colpisce il modo in cui è tata uccisa. Però può significare anche qualcos’altro. Che ancora la colpisce questo modo in cui lui la ama, cioè ancora si amano e per questo sono puniti. Possiamo leggere in due maniere questa espressione di Dante. E tutto è su un percorso binario, comunque, perché tutto dipende dal fatto che Dante stia facendo accento sulla storia romantica dell’amore tra questi due o che Dante invece stia facendo accento sul suo turbamento, la riflessione che questa è comunque una storia peccaminosa
SARA: E quindi da condannare
Da condannare e condannata da Dio. Nella seconda strofa dice; l’amore che non perdona a nessuna persona amata di riamare. Significa che non risparmia, non evita a nessuna persona amata di riamare. Vi ricorderete che nelle lezioni precedenti abbiamo detto, con Andrea Cappellano, che addirittura, per assurdo, si potrebbe dire, nella nostra prospettiva, ma era accettabile nella prospettiva medievale, chiunque è amato deve per forza riamare. Noi lo spiegammo dicendo che in fondo in quell’epoca i matrimoni erano quasi tutti combinati e quindi il vero amore non si manifestava mai all’interno del matrimonio, ma si manifestava come amore extraconiugale, come amore adulterino insomma. Erano storie fuori del matrimonio. Per cui il concetto diventava che chi è amato da una persona straordinaria non può non riamarla. E lo ricordammo a proposito dell’episodio del bacio di Ginevra, quando si giustificava l’amore fra Lancillotto e Ginevra, anche se Ginevra è una regina, la moglie di re Artù e Lancillotto ha promesso fedeltà al suo re. E decide di tradire il suo re con l’avvio di questa relazione con la regina che gli è stata affidata. Ebbene, giustificano questo amore gli scrittori del tempo con l’idea che sono due personaggi straordinari e quindi la bellissima ma soprattutto degnissima Ginevra non poteva non fare innamorare un grande cavaliere come Lancillotto e il grandissimo Lancillotto non poteva non fare innamorare Ginevra, per cui se poi sono caduti in questo amore, anche se adulterino, questo amore si giustifica.
Però tutto questo fino a che Dante è stato stilnovista, fino a che Dante ha seguito i dettami della poesia provenzale, della poesia cavalleresca. Ma ora questo amore è comunque peccaminoso, perché è un tradimento, perché non è l’amore con la persona alla quale hai promesso fedeltà per tutta la tua vita. Anche in questa terzina il verso “che come vedi ancora non mi abbandona” possiamo interpretarlo in due maniere. O che lui ancora non abbandona lei e quindi sono costretti a soffrire insieme, tutti e due peccatori, o che l’amore ancora non abbandona lei, quindi sottolineatura romantica del fatto che sono ancora innamorati, come nella terzina precedente.
E l’ultima, che va spiegata fino in fondo. L’amore li ha condotti ad una morte, cioè li ha condotti a morire insieme. Anche questo può essere interpretato in due maniere. O che li ha condotti a morire insieme uccisi dal marito, riflessione romantica sullo strazio per cui due giovani concludono la loro esistenza così rapidamente solo per essersi amati; oppure l’altra interpretazione morale, frutto del turbamento della riflessione di Dante, e non della pietà, che sono arrivati ad una morte, cioè a morire insieme, alla morte dell’anima, la comune morte dell’anima, cioè tutti e due nel peccato. “Caina attende chi a vita ci spense” significa che è punito chi li ha uccisi, perché Gianciotto Malatesta, uccidendo Paolo e Francesca…
SARA: E’ anche lui peccatore
E si è macchiato di un doppio tipo di peccati, perché è assassino e traditore dei parenti. Andiamo avanti…
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
(leggono, il professore come Dante e Sara come Francesca)
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
Francesca racconta la conclusione tragica della loro vita. Stavano leggendo di Lancillotto e Ginevra. Erano soli e senza alcun sospetto, cioè non sospettavano di essere spiati, di essere visti mentre leggevano questo e di essere visti poi quando si scambiano il bacio. O non sospettavano che sarebbe accaduto che si baciassero, non sospettavano di rivelarsi e dichiararsi il loro amore. Ma è il testo che è Galeotto, come dice Dante, cioè che spinge i due a incrociarsi e ad amarsi. Galeotto nel testo della letteratura cavalleresca è il personaggio che fa sì che Ginevra e Lancillotto si incontrino e vuole incoraggiare questa relazione fra la regina, che è un po’ recalcitrante, e Lancillotto, che pure ha delle resistenze a fare quello che Galeotto gli suggerisce. Ebbene il libro è Galeotto nel senso che la lettura di quel libro spinge i due a dichiararsi l’amore. Perché leggono proprio l’episodio che abbiamo riportato nelle lezioni precedenti, in cui Ginevra e Lancillotto si baciano. Infatti, dice qui, quando leggemmo del bacio tra il grandissimo e bellissimo Lancillotto e la straordinaria e bella regina Ginevra, i nostri sguardi si incrociarono…”E quel giorno non vi leggemmo più avante”, dice Francesca. Anche questo lo possiamo interpretare in due maniere: o che non lessero ancora perché trascurarono la lettura per baciarsi e per amarsi o che non poterono leggere ancora più di quel testo perché al primo bacio furono scoperti e uccisi.
Diamo un’indicazione complessiva di questo quinto canto dell’inferno. Sembra essere soltanto una storia d’amore. Quella tra Paolo e Francesca è comunque una storia che ispira tanto e tutti, ed è uno dei passi più famosi della Commedia. Ma in realtà, come vi dicevo prima, è un’espressione di un’esistenza di intellettuale. E’ una sorta di “redde rationem” dell’intellettuale Dante. Dante che fa i conti con se stesso e con la sua esperienza culturale e deve, al termine di tutta questa serie di anni, riconoscere che tanti anni della sua vita li ha quasi buttati, perché si è dedicato a un tema d’amore così esasperato non considerando che l’aspetto principale dell’esistenza è la salvezza dell’anima. Dante fa una sorta di complessiva analisi, un esame degli interessi della sua giovinezza. Ricordate, quelli che avete seguito queste lezioni, il suo divertimento con le donne di Firenze, lui, Lapo Gianni, Gianni Alfano, Guido Guinizzelli, che scorrazzavano per Firenze inseguendo le più belle donne della città, dedicando loro poesie. Poi tra queste ha scelto Beatrice e ne ha fatto l’emblema…
SARA: Della donna angelo
Dell’avvenenza fisica ma anche mentale, interiore, della bellezza interiore di una donna. Ed ha idealizzato Beatrice. Però Dante è stato un giovane che si è dato da fare con queste diverse donne che hanno interessato i suoi affetti. Poi abbiamo detto che queste sono finite nell’immagine delle donne-schermo per potere giustificare ed indicare che l’unica donna sua fosse Beatrice. Ma resta il fatto che comunque tutti i personaggi che nomina qui sono i protagonisti delle sue letture, sono quelli che hanno determinato la sua appartenenza al Dolce Stilnovo e anche il suo successo nella Firenze della fine del Duecento, prima ancora che si verificasse l’esilio. Però Dante si è trasformato. Filosofia, teologia, riflessione morale. E al termine di questo percorso è andato a recuperare tutta questa esperienza precedente sotto la dimensione della virtù. Concludiamo dicendo che in questo canto si oscilla fra la pietà e il turbamento nell’atteggiamento di Dante che prova pietà per i protagonisti ma anche turbamento per se stesso. La pietà per i protagonisti perché sono due giovani, ancora adolescenti: erano giovanissimi Paolo e Francesca, sono stati travolti dalla passione ma subito sono stati uccisi. E il turbamento per se stesso perché in fondo è giusto che sia così. E’ giusto che Dio li condanni perché hanno contravvenuto alla legge divina in questa passione. E ricordiamo per ultimo questo Paolo, che non parla mai, ma che…
SARA: E’ l’ombra di Francesca
E in questo suo fare silenzioso sembra parlare con la sua espressione in questa tragedia…
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
Ci vediamo alla prossima lezione, quando passeremo a parlare di un altro tema importante nella Commedia. Non più l’amore ma il tema politico. Arrivederci.
ANTOLOGIA
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♦ Descrizione dell’opera
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QUINTA LEZIONE
COMMEDIA, INFERNO: CANTO QUINTO
Siamo alla nostra quinta lezione, la seconda sull’Inferno di Dante Alighieri. Ho qui con me, come altre volte, una collaboratrice. In questo caso è Sara Giglio. E’ un’alunna del quinto pedagogico del liceo Galanti. Ha studiato queste cose due anni fa e ci aiuterà a leggere alcuni passi della Commedia. E’ anche una danzatrice, la precedente, Barbara Petti, era un’attrice di teatro e lei coltiva l’hobby della danza ed è molto brava, brava anche a scuola, ma lo dovrà dimostrare anche qui…
SARA: E’ troppo buono
Prendiamo dalla fine del primo canto dell’Inferno, dal momento in cui Dante entra e si dirige verso la sponda del fiume Acheronte. Incontrerà prima, nell’antinferno, gli ignavi, quelli che non hanno speso la loro vita per fare niente di buono, niente di importante. Però prima incontra la porta dell’Inferno, nella quale sono scolpite queste parole famose:
Per me si va nella città dolente,
per me si va nell'eterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore...
fecemi la divina potestate
la somma sapienza e il primo amore...
dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne... e io etterno duro...
lasciate ogni speranza voi ch'entrate.
Dopodiché si avviano attraverso questa porta nell’inferno e trovano, nel cosiddetto vestibolo infernale, gli ignavi, che sono inseguiti da vespe, perché nella loro vita non si sono mai mossi e per la legge del contrappasso nell’inferno sono costretti a fare quello che non hanno fatto nella loro vita. E tra questi Dante incontra un personaggio che lui definisce come “colui che fece per viltade il gran rifiuto”, il papa che aveva incominciato a svolgere la sua professione, diciamo, di pontefice, ma poi aveva rinunciato vedendo che la curia intorno a lui era corrotta e c’era poca possibilità di rinnovare la Chiesa. Era stato scelto lui perché era un eremita, un uomo ispirato alla povertà, che avrebbe dovuto dare un nuovo indirizzo alla Chiesa; o forse i suoi, diciamo, elettori invece avevano un altro proposito, quello di mettere una specie di pupazzo lì sul trono di Pietro per poter continuare loro a fare quello che avevano sempre fatto. Celestino Quinto, o perché abbia capito questo o perché abbia capito che non riusciva certamente a modificare la situazione della Chiesa del tempo, rinunciò al trono pontificio. E Dante non gliela perdona, perché dopo di lui diventerà papa proprio quel Benedetto Caetani, con il nome di Bonifacio Ottavo, che sarà la rovina della sua esistenza, come abbiamo già ricordato nelle lezioni precedenti su Dante. Questo incontro, veramente, per noi molisani ha un’importanza più piena, perché Celestino Quinto era molisano, probabilmente nemmeno del territorio di Isernia, ma del territorio di Campobasso, come ci dicono le ultime interpretazioni, originario di Sant’Angelo Limosano. Quindi noi molisani difendiamo Celestino dalle accuse di Dante, uno dei rari casi in cui diamo torto a Dante. Dovete sapere che è vissuto in una prigione di due metri per uno, poi è stato avvelenato, tra l’altro, è morto molto probabilmente di veleno.
Dopodiché incontrano Caronte, sulla sponda dell’Acheronte: “Caron dimonio dagli occhi di bragia” lo definisce Dante. E questo grande vecchio dalla barba bianca, dal pelo antico e capelli lunghi e bianchi, vorrebbe impedire il loro viaggio, ma Virgilio risolve tutto con una formula: Non ti preoccupare Caronte, “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare”. Passano oltre e vengono portati sull’altra sponda dell’Acheronte da Caronte stesso, con loro una grande ressa di anime; e sull’altra sponda si ritrovano nel primo cerchio dell’inferno, nel Limbo, dove sono i non battezzati. E tra i non battezzati Dante incontrerà grandi poeti, Omero, Orazio, Ovidio, Lucano; poi c’è lui, Dante, con Virgilio; e sarà contento di essere “sesto” fra tanti poeti. Lì troverà anche altri intellettuali delle epoche antiche, che sono costretti a stare lì perché non sono stati battezzati. Sarebbe lungo adesso discutere sul fatto che sia giusto o meno che gente senza avere delle responsabilità debba…
SARA: Debba essere collocata nell’inferno, in questo luogo di orrore, di terrore…
Anche se si sono comportati bene. Dopodiché ci muoviamo verso il secondo cerchio dell’inferno, dove incontrano un’altra grande creatura infernale, Minosse. Minosse è così descritto da Dante:
Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia,
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Cioè avvolge la sua coda e per quanti giri faccia la sua coda stabilisce quanti gradi dovrà scendere l’anima. Li esamina, questo giudice infernale, li ascolta, loro dicono quello che hanno fatto e lui stabilisce: tu sei nel secondo, tu nel terzo, tu nel quarto e così via. Anche Minosse vorrebbe impedire il loro “fatale andare” perché, dice, Dante non è morto, è un vivo che deve passare nell’inferno, e vorrebbe opporsi, ma Virgilio lo liquida con la solita formuletta già citata: non devi fare domande e basta. E Minosse si deve stare zitto.
Poi entriamo in una strana atmosfera…
Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quindi sono in una grande tempesta. Scopriremo che sono le anime dei lussuriosi, che sono costretti a vivere nella tempesta, travolti, disturbati continuamente da questo, perché nella loro vita sono stati appunto travolti dalla tempesta dei sensi, della passione. Quindi la legge del contrappasso per analogia. Si ripete, in questo caso, la stessa situazione vissuta sulla terra, mentre nel caso degli ignavi era l’opposta, la situazione…
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
Sottomettono la ragione all’istinto, al desiderio…
E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l’aura nera sì gastiga?».
Vedete questa gente trascinata dalla tempesta, che vola come in formazione, come fossero gru, come fossero uccelli che seguono una linea nell’aria. E lui risponde…
«La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.
Alluderà tra poco al fatto che si tratti di Semiramide, la regina degli Assiri e dei Babilonesi, un regno che nei testi antichi viene descritto come corrotto. E poi altre lussuriose donne come Cleopatra, come Elena. E poi gli uomini, Achille, Paride, Tristano. Ne vengono nominati molti. Infatti dice al verso 70 Dante…
Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
Cioè, sentire tutti questi nomi, che erano nomi di personaggi che lui aveva amato, aveva letto nei testi di cui si era imbevuto, era adesso come rimettere in discussione tutta la sua cultura e rendersi conto di avere letto finallora dei libri che contenevano delle azioni che nella visione divina erano peccaminose. Erano tutti amori, tra quei personaggi. Quindi è come se Dante, ripeto, mettesse in discussione se stesso e riconoscesse di avere sbagliato fino ad ora. Ma lo vedremo ancora meglio più avanti…
I’ cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri».
Ne ha notati due che stanno sempre attaccati, sempre insieme…
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
Cioè Virgilio gli suggerisce di invocarli in nome di quell’amore che li travolge, li mena, li spinge in questa tempesta e in nome di quello stesso amore loro saranno disposti a rispondere. Dante capisce bene la lezione e infatti…
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!».
Ecco, le chiama anime affannate, anime sofferenti, addolorate e già questo è un moto di affetto nei confronti di queste anime, che sarà presto ricompensato con una positiva disponibilità a parlare con lui…
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.
Ecco, vengono come colombi verso Dante e Virgilio, tanto è stato affettuoso il grido, lo slancio con il quale Dante si è rivolto a loro. E sentiamo…Tu leggerai, Sara…
(legge Sara)
«O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
(recita il professore)
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».
Dante sta riflettendo. Dobbiamo spiegare cos’è avvenuto. Gli ha parlato Francesca e gli ha detto che è nata dove scende il Po con i suoi affluenti, a Ravenna; era della famiglia da Polenta. E Francesca gli ha parlato di una storia d’amore, una storia molto complicata, grave, che si è conclusa con la morte. Dobbiamo raccontarla allora, prima di andare avanti. Dovete sapere che Francesca dei signori da Polenta, di Ravenna, aveva sposato Gianciotto Malatesta di Rimini. E’ un signore un po’ più grande di lei di età, che non l’amava, nemmeno lei lo amava certamente. Fra l’altro era un po’ claudicante questo Gianciotto Malatesta e aveva un fratello più giovane e più bello di lui. E Francesca, che si è sposata non per amore ma per decisione delle due famiglie, perché i Malatesta di Rimini volevano mettere insieme le proprietà con i da Polenta di Ravenna, si ritrova in una famiglia così, senza amare suo marito, si ritrova in casa il fratello e poi vedremo come questa storia si è dipanata verso una passione travolgente e la morte, perché i due, sorpresi dal marito, vengono uccisi.
Lo dice Dante, in queste tre terzine che cominciano con la parola “amore”, con questa anafora, con questa ripetizione, che è qualcosa che riguarda la sua formazione, la sua formazione letteraria. Intanto quel primo verso “Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende” è una riproposizione della canzone tematica dello Stilnovo di Guido Guinizzelli, che diceva “al cor gentile rempaira sempre amore”, cioè l’amore risiede nei cuori gentili. E qui dice appunto: l’amore, che si accende nei cuori gentili, prese costui per la mia bella persona che mi è stata tolta. “E ancora mi offende il modo”. Significa che ancora la colpisce il modo in cui è tata uccisa. Però può significare anche qualcos’altro. Che ancora la colpisce questo modo in cui lui la ama, cioè ancora si amano e per questo sono puniti. Possiamo leggere in due maniere questa espressione di Dante. E tutto è su un percorso binario, comunque, perché tutto dipende dal fatto che Dante stia facendo accento sulla storia romantica dell’amore tra questi due o che Dante invece stia facendo accento sul suo turbamento, la riflessione che questa è comunque una storia peccaminosa
SARA: E quindi da condannare
Da condannare e condannata da Dio. Nella seconda strofa dice; l’amore che non perdona a nessuna persona amata di riamare. Significa che non risparmia, non evita a nessuna persona amata di riamare. Vi ricorderete che nelle lezioni precedenti abbiamo detto, con Andrea Cappellano, che addirittura, per assurdo, si potrebbe dire, nella nostra prospettiva, ma era accettabile nella prospettiva medievale, chiunque è amato deve per forza riamare. Noi lo spiegammo dicendo che in fondo in quell’epoca i matrimoni erano quasi tutti combinati e quindi il vero amore non si manifestava mai all’interno del matrimonio, ma si manifestava come amore extraconiugale, come amore adulterino insomma. Erano storie fuori del matrimonio. Per cui il concetto diventava che chi è amato da una persona straordinaria non può non riamarla. E lo ricordammo a proposito dell’episodio del bacio di Ginevra, quando si giustificava l’amore fra Lancillotto e Ginevra, anche se Ginevra è una regina, la moglie di re Artù e Lancillotto ha promesso fedeltà al suo re. E decide di tradire il suo re con l’avvio di questa relazione con la regina che gli è stata affidata. Ebbene, giustificano questo amore gli scrittori del tempo con l’idea che sono due personaggi straordinari e quindi la bellissima ma soprattutto degnissima Ginevra non poteva non fare innamorare un grande cavaliere come Lancillotto e il grandissimo Lancillotto non poteva non fare innamorare Ginevra, per cui se poi sono caduti in questo amore, anche se adulterino, questo amore si giustifica.
Però tutto questo fino a che Dante è stato stilnovista, fino a che Dante ha seguito i dettami della poesia provenzale, della poesia cavalleresca. Ma ora questo amore è comunque peccaminoso, perché è un tradimento, perché non è l’amore con la persona alla quale hai promesso fedeltà per tutta la tua vita. Anche in questa terzina il verso “che come vedi ancora non mi abbandona” possiamo interpretarlo in due maniere. O che lui ancora non abbandona lei e quindi sono costretti a soffrire insieme, tutti e due peccatori, o che l’amore ancora non abbandona lei, quindi sottolineatura romantica del fatto che sono ancora innamorati, come nella terzina precedente.
E l’ultima, che va spiegata fino in fondo. L’amore li ha condotti ad una morte, cioè li ha condotti a morire insieme. Anche questo può essere interpretato in due maniere. O che li ha condotti a morire insieme uccisi dal marito, riflessione romantica sullo strazio per cui due giovani concludono la loro esistenza così rapidamente solo per essersi amati; oppure l’altra interpretazione morale, frutto del turbamento della riflessione di Dante, e non della pietà, che sono arrivati ad una morte, cioè a morire insieme, alla morte dell’anima, la comune morte dell’anima, cioè tutti e due nel peccato. “Caina attende chi a vita ci spense” significa che è punito chi li ha uccisi, perché Gianciotto Malatesta, uccidendo Paolo e Francesca…
SARA: E’ anche lui peccatore
E si è macchiato di un doppio tipo di peccati, perché è assassino e traditore dei parenti. Andiamo avanti…
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
(leggono, il professore come Dante e Sara come Francesca)
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
Francesca racconta la conclusione tragica della loro vita. Stavano leggendo di Lancillotto e Ginevra. Erano soli e senza alcun sospetto, cioè non sospettavano di essere spiati, di essere visti mentre leggevano questo e di essere visti poi quando si scambiano il bacio. O non sospettavano che sarebbe accaduto che si baciassero, non sospettavano di rivelarsi e dichiararsi il loro amore. Ma è il testo che è Galeotto, come dice Dante, cioè che spinge i due a incrociarsi e ad amarsi. Galeotto nel testo della letteratura cavalleresca è il personaggio che fa sì che Ginevra e Lancillotto si incontrino e vuole incoraggiare questa relazione fra la regina, che è un po’ recalcitrante, e Lancillotto, che pure ha delle resistenze a fare quello che Galeotto gli suggerisce. Ebbene il libro è Galeotto nel senso che la lettura di quel libro spinge i due a dichiararsi l’amore. Perché leggono proprio l’episodio che abbiamo riportato nelle lezioni precedenti, in cui Ginevra e Lancillotto si baciano. Infatti, dice qui, quando leggemmo del bacio tra il grandissimo e bellissimo Lancillotto e la straordinaria e bella regina Ginevra, i nostri sguardi si incrociarono…”E quel giorno non vi leggemmo più avante”, dice Francesca. Anche questo lo possiamo interpretare in due maniere: o che non lessero ancora perché trascurarono la lettura per baciarsi e per amarsi o che non poterono leggere ancora più di quel testo perché al primo bacio furono scoperti e uccisi.
Diamo un’indicazione complessiva di questo quinto canto dell’inferno. Sembra essere soltanto una storia d’amore. Quella tra Paolo e Francesca è comunque una storia che ispira tanto e tutti, ed è uno dei passi più famosi della Commedia. Ma in realtà, come vi dicevo prima, è un’espressione di un’esistenza di intellettuale. E’ una sorta di “redde rationem” dell’intellettuale Dante. Dante che fa i conti con se stesso e con la sua esperienza culturale e deve, al termine di tutta questa serie di anni, riconoscere che tanti anni della sua vita li ha quasi buttati, perché si è dedicato a un tema d’amore così esasperato non considerando che l’aspetto principale dell’esistenza è la salvezza dell’anima. Dante fa una sorta di complessiva analisi, un esame degli interessi della sua giovinezza. Ricordate, quelli che avete seguito queste lezioni, il suo divertimento con le donne di Firenze, lui, Lapo Gianni, Gianni Alfano, Guido Guinizzelli, che scorrazzavano per Firenze inseguendo le più belle donne della città, dedicando loro poesie. Poi tra queste ha scelto Beatrice e ne ha fatto l’emblema…
SARA: Della donna angelo
Dell’avvenenza fisica ma anche mentale, interiore, della bellezza interiore di una donna. Ed ha idealizzato Beatrice. Però Dante è stato un giovane che si è dato da fare con queste diverse donne che hanno interessato i suoi affetti. Poi abbiamo detto che queste sono finite nell’immagine delle donne-schermo per potere giustificare ed indicare che l’unica donna sua fosse Beatrice. Ma resta il fatto che comunque tutti i personaggi che nomina qui sono i protagonisti delle sue letture, sono quelli che hanno determinato la sua appartenenza al Dolce Stilnovo e anche il suo successo nella Firenze della fine del Duecento, prima ancora che si verificasse l’esilio. Però Dante si è trasformato. Filosofia, teologia, riflessione morale. E al termine di questo percorso è andato a recuperare tutta questa esperienza precedente sotto la dimensione della virtù. Concludiamo dicendo che in questo canto si oscilla fra la pietà e il turbamento nell’atteggiamento di Dante che prova pietà per i protagonisti ma anche turbamento per se stesso. La pietà per i protagonisti perché sono due giovani, ancora adolescenti: erano giovanissimi Paolo e Francesca, sono stati travolti dalla passione ma subito sono stati uccisi. E il turbamento per se stesso perché in fondo è giusto che sia così. E’ giusto che Dio li condanni perché hanno contravvenuto alla legge divina in questa passione. E ricordiamo per ultimo questo Paolo, che non parla mai, ma che…
SARA: E’ l’ombra di Francesca
E in questo suo fare silenzioso sembra parlare con la sua espressione in questa tragedia…
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
Ci vediamo alla prossima lezione, quando passeremo a parlare di un altro tema importante nella Commedia. Non più l’amore ma il tema politico. Arrivederci.